lunedì 23 aprile 2012

No alla discarica di amianto, sì al parco delle cave. Lo sciopero della fame continua

Lo sciopero della fame a staffetta promosso dal "Comitato spontaneo contro le nocività" per protestare contro l'apertura della discarica di amianto in via Brocchi continua. Per il dodicesimo giorno di sciopero, che si sta tenendo sotto la Loggia, si è offerto il mio caro amico Mario Bruno Belsito, che vedete nella foto.
La dura battaglia contro la discarica di amianto è di lunga data. Comincia infatti nel luglio 2009 quando alcuni cittadini bresciani, tra cui l'amico Mario, fondarono il Comitato spontaneo contro le nocività e cominciarono a manifestare contro l'apertura di una discarica di amianto a San Polo, il quartiere più inquinato di Brescia. Nel 2012 Brescia si classifica al settimo posto fra le città  italiane con l'aria meno respirabile (qui trovate i documenti di Legambiente).
Gli sforzi, i flash mob, i sacrifici e anche i ricorsi presso il TAR (pagato dai membri del Comitato)  sono serviti a far sospendere per un breve periodo la realizzazione della discarica  ma purtroppo non sono stati necessari a far sospendere definitivamente l'immenso "cassonetto" nel quale saranno sotterrate tonnellate di amianto a pochi metri dalla falda acquifera.
Oltre alle manifestazioni del Comitato, non sono serviti nemmeno i dati forniti dall'Asl di Brescia che evidenziano una maggiore percentuale di malattie respiratorie nei bambini che abitano nel quartiere di San Polo rispetto ai bambini che abitano in altre zone della città.
L'amministrazione comunale prosegue per la sua strada, "la discarica s'ha da fare".
Non importa se il quartiere è situato a pochi passi dall'acciaieria Alfacciai, a pochi metri dalla tangenziale e a pochi chilometri dall'inceneritore. Ciò che conta è smaltire dei rifiuti tossici pericolosissimi vicino al centro abitato.
Proprio nel luogo in cui dovrebbe sorgere la discarica, da 30 anni, il piano regolatore prevede la realizzazione di un parco (il parco delle cave) per riequilibrare l'ambiente del quartiere minacciato, oltre che dallo smog, anche da sostanze nocive come il cesio ed eternit.
A causa del silenzio e dell'insensibilità dell'amministrazione comunale di Brescia, i membri del Comitato hanno così deciso di adottare una nuova forma di protesta per manifestare il dissenso alla discarica e per lottare in favore dell'ambiente della città. Lo sciopero della fame a staffetta è cominciato giovedì 12 aprile e proseguirà ad oltranza, finché non giungeranno delle risposte da parte dell'amministrazione. 
Lo slogan scelto è: "Non sarà la fame a placare la nostra rabbia". Arrabbiamoci anche noi con loro, portandogli sostegno e lottando per la realizzazione di un parco e non di una gigantesca e inquinante pattumiera.
Un immenso grazie all'amico Mario, a tutti membri del Comitato che hanno già scioperato e a tutti quelli che lo faranno nei prossimi giorni.
Per avere maggiori informazioni sulle attività del Comitato spontaneo contro le nocività vi consiglio di visitare il sito della Rete Antinocività Bresciana.

martedì 17 aprile 2012

Piazza Fontana, Piazza Loggia, Italicus e la stazione di Bologna. Una riflessione sulla strategia della tensione

Rileggendo il libro "L'Italia Repubblicana" di Guido Crainz ho riscoperto questo scritto di Pier Paolo Pasolini e pubblicato sul Corriere della Sera del 14 novembre. Un articolo che vi invito a leggere.


Cos'è questo golpe? Io so

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

giovedì 5 aprile 2012

Abolizione dell'articolo 18: “una pistola con il colpo in canna”

Giorgio Cremaschi, Presidente del Comitato Centrale della FIOM, racconta che un industriale torinese, qualche anno fa, ripeteva ad ogni assemblea dell’Unione industriali che bisognava abolire l’articolo 18, perché voleva in mano una pistola con il colpo in canna. L'imprenditore diceva che non era sua intenzione utilizzarla perché non amava licenziare, ma i lavoratori dovevano sapere che quella pistola ce l’aveva. Questo aneddoto sta diventando realtà grazie alla riforma del mercato del lavoro proposta, o forse imposta visto il poco dialogo con le parti sociali e i sindacati, dal Ministro "tecnico" del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elsa Fornero. Anche in questo caso, noi cittadini italiani siamo vittime della manipolazione dell'informazione che il Governo e molte testate giornalistiche stanno portando avanti. Vogliono farci credere che in Italia il licenziamento sia impossibile, anche quando un'azienda è in grosse difficoltà economiche. La tecnica utilizzata è ripetere una bugia infinite volte affinché diventi verità. Il Governo sostiene che in Italia non si verificano più discriminazioni sul posto di lavoro. Questa è una grandissima bugia, basti pensare a quanto sta accadendo  in molte fabbriche italiane. Una situazione gravissima, per esempio, è quella che stanno vivendo Giovanni, Antonio e Marco, i tre lavoratori della fabbrica Fiat Sata di Melfi. Come scrissi il 24 febbraio sul mio blog, i tre operai furono licenziati senza giustificato motivo in seguito ad uno sciopero aziendale. Al termine di una vicenda durata quasi due anni, la Corte d'Appello ha recentemente dichiarato che i lavoratori dovevano essere reintegrati sul posto di lavoro perchè erano stati licenziati senza giustificato motivo. Riammessi in azienda proprio grazie all'articolo 18 dello statuto dei lavoratori che prevede il reintegro nei casi di licenziamento senza giusta causa o giustificato motivo, non sono ancora tornati a svolgere il loro lavoro perché l’azienda torinese non intende riassumere i tre operai. Dopo questo lampante esempio, e molti altri che avrei potuto citare, si continua a dire che in Italia non esistono casi discriminazione sul posto di lavoro e che licenziare è quasi impossibile. L'aspetto più grave dell'abolizione dell'articolo 18 riguarda proprio il reintegro sul posto di lavoro. Se passerà la riforma del Ministro Fornero, un lavoratore potrà essere licenziato senza un valido motivo e non potrà essere reintegrato sul posto di lavoro. In caso di licenziamento economico, ovvero quando il datore di lavoro decide di sopprimere determinate attività aziendali per far fronte ai costi gestionali dell’azienda, il lavoratore percepirà solo un'indennità tra 15 e 27 mensilità e poi dovrà cercare una nuova occupazione in un mercato del lavoro precario e ancora in forte crisi. Su questo fronte si è fortunatamente aperto uno spiraglio. Ieri infatti, Monti & Co. (Bersani, Alfano e Casini, leader dei partiti che sostengo l’attuale Governo tecnico) hanno raggiunto un accordo che prevede la reintroduzione del diritto al reintegro sui licenziamenti economici palesemente illegittimi. La speranza è che l'intesa sul reintegro venga scritta definitivamente nero su bianco. Senza l'articolo 18 ogni imprenditore potrà dar sfogo alla propria fantasia licenziando i lavoratori che ritiene "scomodi" inventandosi qualsiasi motivazione. Un elemento che ci riporta indietro nel tempo, prima del 1970, quando ancora lo statuto dei lavoratori non esisteva; uno statuto nato proprio per tutelare la dignità dei lavoratori e la libertà dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro. Il Governo ritiene che per uscire dalla crisi sia necessario rendere il licenziamento più semplice. I veri problemi, che però non vengono affrontati nella riforma, sono creare nuovi posti di lavoro, investire per un nuovo modello di sviluppo e soprattutto cercare di eliminare l'elevatissima precarietà. In merito a quest'affermazione, vorrei segnalarvi un passaggio dell'appello dei giuristi a difesa dell'articolo 18 dello statuto dei lavoratori: "la verità è che non esiste un vero collegamento tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare, e forte è quindi il timore che il "governo tecnico", approfittando della crisi economica, possa dare attuazione ad un antico progetto di riassestamento del potere nei luoghi di lavoro, che per essere esercitato in modo sovrano mal tollera l'esistenza di norme di tutela dei lavoratori dagli abusi". L'abolizione dell'articolo 18 nega la libertà di ogni lavoratore. L'imprenditore potrà usare questa "pistola con il colpo in canna" per intimidire i dipendenti, i quali, se non vorranno essere licenziati o se semplicemente coltivano il legittimo desiderio di un prolungamento del contratto a tempo determinato, non potranno protestare per i disagi sul posto di lavoro, dai problemi di sicurezza al non pagamento delle ore straordinarie. E' chiaro quindi che la presenza di tale norma limita fortemente il potere dei padroni all'interno dei posti di lavoro.  Lo scopo dell’articolo 18 è proprio questo: sanzionare il comportamento illegittimo del datore di lavoro nei confronti dei lavoratori, ripristinando lo status che precedeva il licenziamento. Concludo accogliendo e diffondendo l'appello di Maurizio Landini, Segretario Generale della FIOM, il quale invita tutti i cittadini ad essere presenti e a scendere in piazza insieme alle lavoratrici ed ai lavoratori per provare a costruire un nuovo futuro, diverso da quello che il Governo Monti sta disegnando. E' moto importante lottare insieme perché questi temi non riguardano solo le persone che lavorano ma siamo di fronte a diritti di civiltà che riguardano anche i giovani e tutte quelle persone che un lavoro ancora non ce l'hanno.